La mia passione per il volo: com’è nata e com’è morta

Com’è nata la mia passione per gli aerei? Semplice: me l’ha inculcata mio padre.  Grande appassionato di volo e pilota mancato per cause fisiche ed economiche, mio padre ha trovato due luoghi in cui poteva a suo modo vivere il sogno e mi ci ha portata in più occasioni.

Il primo è il Museo del Volo al Castello di San Pelagio. Credo sia l’unico museo che mio padre abbia mai visitato in vita sua, o almeno l’unico in cui sia entrato di sua volontà.

È un museo piccolo rispetto ai più importanti musei aeronautici d’Europa, ma forse lo amo tanto proprio per questa sua dimensione intima. E di certo la mia immaginazione di bambina è stata nutrita dall’elegante location (un castello, appunto), che oggi razionalmente considero perfettamente adeguata a raccontare le grandi imprese di scienziati visionari e di piloti combattuti tra il romanticismo e l’ardire.

 

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Mio padre mi portava anche a vedere da lontano gli aerei che decollavano dall’aeroporto di Venezia: io e mio fratello, allora bambini, ci annoiavamo a morte, ma qualcosa di quei lunghi pomeriggi a far niente è entrato dentro di me.

Suggestionata da queste visite a volte desiderate e più spesso subite, il volo è stato per una porzione della mia vita qualcosa di appassionante, dal gusto direi epico. Un’avventura sbalorditiva, nonostante la ripetitività dei gesti: le procedure di sicurezza, l’imbarco, il decollo, la rotta da seguire, l’atterraggio, lo sbarco.

Ma come tante cose belle nella vita anche la mia passione per il volo è finita.

Uccisa da cosa? Dalla maleducazione e dall’arroganza, prima, e dal desiderio di fare viaggi più consapevoli e sostenibili poi. Resterà per sempre il romanticismo di quei sogni infantili, così preziosi e lontani nel tempo che meriterebbero di essere celebrati a un festival vintage.

Il mito del volo

Negli anni della mia infanzia e della mia adolescenza – ricordo a tutti che sono una vecchia gallina quarantenne – volare era un lusso che si potevano permettere solo le famiglie agiate. Per le famiglie operaie era un sogno e sembrava irrealizzabile.

Sono cresciuta con questo mito del volo come qualcosa di nobile ed elitario; l’aereo per me era inoltre un emblema di libertà, un mezzo che esaltava la mia innata e insaziabile curiosità.

In quell’epoca primordiale fare l’hostess era una carriera ambita (e ben retribuita), ma bisognava essere alte, belle e con una vista perfetta. Non avevo nessuna di queste tre qualità e quindi la gioia del volo mi era preclusa non solo come cliente ma anche come lavoratrice.

L’euforia del volo

Poi sono arrivati i voli charter e le prime offerte delle compagnie di linea, perlopiù rivolte ai  giovani.

È grazie a queste novità che a 18 anni ho avuto il mio battesimo del volo in occasione di una gita scolastica a Londra e pochi mesi dopo ho preso il mio secondo volo per una vacanza a Mallorca con le amiche. Tempo due mesi ed ero già in volo, di nuovo per Londra ma questa volta da sola.

Non credo che sia possibile descrivere a chi è nato nell’era del volo alla portata di tutti l’euforia che abbiamo provato noi che per tanti anni l’abbiamo sognato come qualcosa di impossibile. Non c’era molta differenza nelle nostre menti tra l’andare a Londra e andare sulla Luna, e se mi avessero misurato le pulsazioni del cuore nel momento in cui salivo gli scalini che mi portavano a bordo di un aereo per la prima volta nella mia vita i valori sarebbero risultati molto simili a quelle di Armstrong mentre scendeva le scalette del modulo lunare.

Dal cuore che batte all’orgasmo: il momento del primo stacco da terra è stato per me epocale. C’è un prima nella mia vita, e un dopo. Per anni ho amato e desiderato l’istante in cui le ruote dell’aereo lasciano il suolo provocandomi un tuffo un cuore e un quasi impercettibile balzo all’indietro. Che sensazione meravigliosa! Poter volare! Quel secondo da solo valeva il prezzo del biglietto.

Negli anni 2000 arriva la novità assoluta che rivoluziona il viaggio: le compagnie aeree low cost. I voli economici rendono l’aereo un mezzo alla portata di tutti. Le distanze si accorciano e le vacanze non sono più sinonimo di una settimana al mare in Italia.

Ho preso il mio primo volo RyanAir nel 2006, destinazione Derry (con cambio a London Stansted)… ed è stato il primo di una lunga, lunghissima serie.

Il boom dei voli low cost ha coinciso con i miei primi anni di vita in Irlanda e io ne ho usufruito con entusiasmo. Per due volte sono riuscita ad accappararmi i favolosi voli a due euro andata e ritorno tasse incluse.

Sì, esistevano davvero. 2008: andata e ritorno Dublino-Glasgow e Dublino-Londra, 4 euro in tutto. Dublino-Venezia 5 euro. Costavano meno gli aerei degli autobus!

Spostarsi non era più una decisione da ponderare attentamente: a un prezzo così ridicolo non c’era manco da pensare. Si comprava, e poi se non si poteva andare pazienza. Ma quasi sempre si andava. “Andiamo!” potrebbe essere lo slogan di quegli anni.

I voli low cost hanno conquistato tutti: lo studente squattrinato, l’expat, mamma e papà con 2-3 figli al seguito, la nonna che va a trovare il nipote all’estero. Persino il businessman che può permettersi voli più costosi inizia a prendere le low cost perché RyanAir arriva anche dove le compagnia di bandiera non arrivano.

Il volo per forza

Due o tre anni di vita in Irlanda e già prendere aerei era diventata una routine. C’erano gli aerei per vedere la famiglia in Italia, quelli per vedere gli amici sparsi in Europa, quelli per andare al mare e quelli intercontinentali per i viaggi “seri”.

Volo dopo volo, la routine dei tanti voli all’anno ha fatto perdere al viaggio in aereo ogni patina di nobiltà e romanticismo. Il volo è diventato qualcosa di dozzinale e volgare.

Tempo pochi anni dal mio trasferimento in Irlanda e di posti a sedere vuoti non se ne trovava più uno in nessun aereo. Altro che i primi voli, quando avevi 3 posti tutti per te, o anche 4 o 5 nei viaggi intercontinentali! Bei tempi quelli, ci si sdraiava a dormire beati, tutti gli altri passeggeri lontani, e ci si svegliava con il balzo delle ruote che toccano il suolo.

Quanta più gente ha iniziato a prendere voli, tanto più è diventato antipatico viaggiare in aereo. Sono diventate parte integrante della routine del viaggio in aereo le scene assurde ai gate d’imbarco: gente che si mette in fila ore prima e sbuffa per la lunga attesa e pidocchi che per evitare di pagare il bagaglio imbarcato riempiono a dismisura il bagaglio a mano e litigano con la hostess che vuole fargli la multa.

E dopo i controlli al gate c’è l’imbarco. Gente con il posto in fila 31 che sale dalla porta anteriore e gente con il posto in fila 5 che sale da quella posteriore: non si sceglie dove salire in base alla logica ma in base alla coda più corta.

Lo scopo è arrivare prima di quello che sta dietro, per fottere l’altro anche nel posizionarsi in un posto a sedere che è già stato scelto. Perché fottere l’altro è una forma mentis, un’innata attitudine dell’italiano medio da cui non se ne scampa manco vivendo all’estero perché purtroppo ci si imbatte negli italiani che vivono all’estero.

Ovviamente mettersi nella coda più corta non serve a niente, perché tanto finché non si è tutti seduti non si parte. Quindi non c’è un far prima.

Semmai il contrario: con la gente che si scontra a metà corridoio, i tizi che imprecano contro la valigia che non entra nella cappelliera e le hostess che devono rimediare ai loro guai, i soliti furbi che fan finta di non sapere che il posto è assegnato per sedersi vicino all’amico, l’imbarco richiede molto più tempo di quello che una semplice operazione come questa richiederebbe in una società che agisce in base alla logica e al rispetto per gli altri. Nei casi peggiori è richiesto pure un invito all’abbassare alla voce da parte del personale di bordo.

Non va meglio durante il volo, con la gente che tratta le hostess come delle pezze da piedi. Lor signori possono volare, son ricchi… e cafoni. E non si finisce manco con l’atteraggio, sancito dall’inutile applauso che tanto urta i nervi ai piloti e seguito dalla frenesia di alzarsi quando la spia delle cinture di sicurezza è ancora accesa, sempre allo scopo di fottere l’altro ed essere i primi ad uscire.

Ovviamente inutile anche questo, perché tanto finché i portelloni non vengono aperti non scende nessuno. Quindi di nuovo in coda in piedi a sbuffare per l’attesa. E tu che stai seduto perché non vuoi far parte di questo gregge e non ti alzerai fino a quando non vedrai il corridoio libero assorbi comunque l’energia negativa sprigionata dalla maleducazione e dall’egoismo dilaganti.

Non sono in grado di determinare se sia causa o effetto, ma il viaggio in aereo è un’immagine esemplare di tre drammatiche trasformazioni della società negli anni Duemila: appiattimento verso il basso della comunicazione, un sempre minor uso del cervello e un sempre maggior disinteresse per i bisogni della collettività a vantaggio di quelli individuali.

Negli ultimi anni della mia vita in Irlanda volare non era più un piacere, ma una necessità. Con 21 giorni di ferie all’anno se volevo vedere la famiglia, vedere gli amici e farmi almeno 2 viaggi dovevo per forza prendere l’aereo. Ne avrei fatto volentieri a meno, ma gli altri mezzi erano troppo lenti.

Volare? No, grazie

Quand’è giunto il momento di andarmene dall’Irlanda non ho voluto saperne di prendere un aereo. Sarei stata un’ingrata a salutare un paese che tanto mi aveva fatto battere il cuore con un’esperienza così volgare. Il mio saluto a Dublino si meritava qualcosa di meglio: qualcosa di romantico, lento e nobile. Un viaggio dal sapore d’altri tempi. E così ho scelto la nave.

Ho lasciato Dublino a bordo del traghetto Ulysses di Irish Ferries con destinazione porto di Holyhead in Galles, da lì treno fino a Londra e poi sì, un aereo. London Stansted-Perugia. Ho visto la città che amavo e dove avevo vissuto otto anni allontanarsi poco a poco, farsi piccina e poi scomparire dalla mia vista.

Negli anni successivi ho preso pochi aerei e con un entusiasmo sempre decrescente. La maleducazione si è fatta prassi consolidata, e a me provoca allergia. A queste seccature si è pure aggiunta la difficoltà pratica di vivere in una città lontana dagli aeroporti (c’è un aeroporto a Perugia ma l’ho usato solo una volta).

Parallelamente a queste vicende si sviluppava la mia sensibilità verso le tematiche ambientali. Ben prima di sapere chi fosse Greta Thunberg mi ero convinta che il modo in cui ci approcciavamo ai viaggi in aereo fosse profondamente sbagliato. Prendere aerei come fossero autobus non è una pratica sostenibile.

Prendere pochi aerei non mi bastava più: volevo non prenderli del tutto. L’ispirazione è stata letteraria e vediamo se avete capito di che libro vi parlo? Sì, il bellissimo Un indovino mi disse di Tiziano Terzani.

Come il grande scrittore e giornalista, mi sono ripromessa di non prendere aerei per 12 mesi consecutivi. Alla data del 30 settebre 2019 ho festeggiato la mia scommessa vinta. Mi trovavo in Marocco, paese che avevo raggiunto dall’Italia in nave con un meraviglioso viaggio dal ritmo lento durato due giorni. Grazie allo stile di vita nomade digitale da me abbracciato nel 2016, la lentezza di treni e navi non è più stata un ostacolo.

Il covid-19 ha aperto scenari inimmaginabili e il nostro modo di viaggiare in aereo potrebbe cambiare radicalmente. Quando si potrà tornare a volare c’è da aspettarsi nuove regole, nuove restrizioni, controlli più rigorosi, code in aeroporto più lunghe.

Per quanto mi riguarda ormai il fascino del volo trova posto soltanto nelle sale di un museo, senza possibilità di recupero.

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