Elogio dell’autostop

Arrivo alla fermata del bus in anticipo. Parte da Butrint alle 16:30, dovrebbe arrivare in dieci minuti. Aspetto pazientemente. Non arriva. Aspetto. Non arriva. Aspetto impaziente. Non arriva.

Sono quasi le 17:00, il cielo è già colorato di rosa e tutte le auto che passano hanno i fanali accesi. Ancora poco e sarà buio totale. Che faccio se il bus non passa? Casa dista circa 11 km, sono in grado di farmeli a piedi ma non a quest’ora, non al buio su una strada senza marciapiedi dove le auto corrono veloci.

Gioco il jolly.

Alla prima auto piccolina che non corre tanto veloce alzo il pollice. Si ferma. “Sarande?”, chiedo. “Sarande”, mi risponde.

Mi accomodo sul sedile accanto al guidatore. Un vecchietto dall’aria bonaria con un inglese sgangherato mi chiede di dove sono. Quando sa che sono italiana con quel poco di italiano che si ricorda mi dice di aver lavorato a Vicenza. Poi alza il volume dell’autoradio. Arriviamo a Saranda senza dire altro e al momento di salutarmi mi fa un gran sorriso.

“Faleminderit”, dico. “Faleminderit”, risponde.

Questo è solo l’ultimo dei tanti passaggi che mi sono stati dati durante i miei viaggi da persone sconosciute. Sì, lo ammetto: sono una grande fan dell’autostop. Pur non potendo vantare viaggi epici – i più lunghi sono stati passaggi di 30-40 minuti – ho una buona idea di cosa sia perché ho chiesto e dato passaggi più volte nella mia vita. Tutte le mie esperienze sono state positive.

Autostop: tra i più bei ricordi di viaggio

Alcuni autostop mi sono rimasti nel cuore più di altri. La guida turistica che mi ha dato un passaggio dal Santuario de la Verna a Bibbiena al termine del mio Sentiero delle Foreste Sacre sembrava un angelo messo lì per me da San Francesco.

E che dire di Rodrigo, altra guida turistica alla fine di una giornata di lavoro, che mi ha caricata quando da Cobano non c’erano più bus per Paquera? Vittima di un errore della receptionist all’ostello di Santa Teresa mi ero ritrovata senza sapere come arrivare a destinazione alle 18:30, il buio era già totale. I km da percorrere erano una trentina, avevo zaino e computer, non ce l’avrei mai potuta fare. Di quel viaggio in auto ricordo l’energia di Rodrigo (dopo una giornata di lavoro!), il profilo nero delle montagne, il cielo pieno di stelle, la sensazione che tutto a suo modo va a posto.

In alcuni paesi se non fosse stato per l’autostop non avrei avuto occasione di parlare con la gente del posto. Ci sono attrazioni che non avrei mai potuto visitare se non avessi fatto autostop, ad esempio il Santuario degli Orsi a Belitsa. Ci sono situazioni in cui l’autostop non è stato necessario, ma sapere che avrei potuto farlo mi ha convinta ad andare a vedere una spiaggia o un paesino.

Ci sono posti dove fare l’autostop è un’usanza locale, comunissima, e farlo ti fa sentire un po’ uno del posto anche a te. Il primo della mia vita è stato a El Hierro nel 2004, isola dove l’autostop viene usato dai locals per sopperire alla carenza di autobus. In Irlanda mi è capitato di farlo un paio di volte a Dunfanaghy per tornare dalla cittadina all’ostello, che era un po’ fuori. Anche qui era una cosa molto comune.

In certi posti non serve nemmeno fermarsi a chiedere. Sono gli autisti che si fermano per chiederti se vuoi un passaggio. Il Costa Rica, e Montezuma in particolare, è il luogo dove ho avuto più passaggi non richiesti. E mica solo da uomini. Anche donne: ragazze giovani, donne della mia età e pure una simpaticissima pensionata. Sono salita su macchine sgangherate, suv fiammanti, in moto… e pure sul cassone di un furgoncino, in piedi, e da lì mi sono goduta una perfetta visuale su un tramonto meraviglioso.

autostop passaggio in quad
Non ho mai guidato un quad. Il tizio che mi ha dato un passaggio ha insistito perché avessi una foto.

Ci sono poi gli episodi divertenti. Un autostop lo ricordo per la guida folle dell’autista. Era il primo viaggio con il mio ex marito, a Mauritius. Eravamo usciti da un parco nazionale e dovevamo tornare all’altro ingresso, dove avevamo lasciato la macchina. Ci dà un passaggio un omone polacco in mega macchinone in compagnia di due bambini piccoli e… la figlia più grande? La compagna? Chiunque fosse, era molto allegra e solare. Lui guidava come un pazzo e a più di una curva sia io che il mio ex abbiamo pensato “ok adesso andiamo”. Ma siamo arrivati a destinazione sani e salvi. Una di quelle esperienze che quando finiscono racconti ridendo… mentre la vivi non ridi mica.

Il racconto di autostop più bello? Non è mio, è della mia host Airbnb a Hateg, in Romania. Andava al lavoro tutti i giorni in autostop. Tutti i giorni! Per andare al lavoro! Questo perché sapeva con certezza che senza attendere troppo qualcuno le avrebbe dato un passaggio. Non lo trovate meraviglioso poter contare sulla generosità altrui? E non trovate meraviglioso che la gente abbia voglia di aiutare qualcuno senza chiedere niente in cambio? Quante auto in meno circolerebbero sulle nostre strade – con tutti i benefici consequenti – se i nostri viaggi in auto venissero condivisi?

I più mi daranno della matta (una donna che viaggia da sola elogia l’autostop!), ma io lo penso davvero: l’autostop va incentivato. È un gesto di solidarietà semplice, utilissimo e gradito. Fa bene alla collettività.

L’autostop e la paura dell’altro

Così utile, così bello eppure oggi così poco diffuso. Nella società attuale gode di pessima fama: roba da studenti squattrinati, ex hippies, adulti con qualche rotella fuori posto e donne incaute. Massacrato da decenni di terrorismo psicologico, di paure, di diffidenza.

Una parentesi doverosa: come può una donna elogiare l’autostop? La questione è spinosa, me ne rendo conto. Ci hanno fatto il lavaggio del cervello: l’autostop è pericoloso e va evitato assolutamente. Ancora oggi a causa di questo lavaggio del cervello ho sempre timore quando alzo il pollice o accetto un passaggio non richiesto.

I racconti dei giornali mi si sono conficcati nella testa, o sotto pelle, non so. Non se ne vanno. La tal tipa ammazzata, quell’altra stuprata, quella stuprata, ammazzata e fatta a pezzi. Racconti di orrore che ai media piace tanto servire in pasto al pubblico. Eppure mi convinco a fare l’autostop, perché credo fortemente che questa cultura del terrore sia dannosa.

Se anche in Italia venisse considerato normale fare l’autostop, come avviene a Hateg dove vive la mia host Airbnb, nessuna donna – e nessun uomo – avrebbe paura a farlo.

Avere paura ci rende diffidenti, ci fa chiudere in noi stessi, barricarci dietro a una trincea di ostilità. Ma la paura è proporzionata al rischio reale? Siamo davvero sicuri che il rischio sia così alto come ci è sempre stato fatto credere? Io, in tutta onestà, lo dubito fortemente ed è per questo che non solo faccio autostop e continuerò a farlo ma invito tutte le donne che desiderano farlo a farlo.

Non inizio nemmeno il discorso violenza sulle donne perché é complesso e non potrei esaurirlo in questo post. Vi lascio qualche link: sono dati reali e pensieri di femministe in cui ho ritrovato molte delle mie convinzioni personali che mi hanno portata a rifiutare la cultura del terrore e a fidarmi delle persone:

In conclusione: faccio l’autostop perché ci credo

Ho iniziato a farlo per convenienza: mi serviva. Ma quando ho iniziato a farlo ho visto che l’autostop era qualcosa in più di un passaggio gratis.

Io credo nella gentilezza, nell’aiutarsi e nel sorridere. Nell’autostop vedo il mio ideale di mondo in cui le persone si aiutano a vicenda, in cui si condivide, in cui ci si prende il tempo di fermarsi a far salire qualcuno, in cui si ha voglia di parlare con sconosciuti invece di averne paura. Un mondo con meno auto e più umanità.

Io ci credo. Se ti approcci alla vita col sorriso, la vita ti sorriderà. Non ho paura degli altri. Piangerò se mi accadrà qualcosa di male, ma non rinuncio a vivere per la paura che mi possa accadere qualcosa.

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