Non rischiare la vita per un tramonto

A onor del vero nel mio caso era un’alba, ma il concetto è lo stesso: non esiste fenomeno naturale, per quanto spettacolare possa essere, per cui vale la pena rischiare la vita. Se non sussistono condizioni di sicurezza soddisfacenti, desistete. Pazienza se non ci saranno altre occasioni, meglio tornare a casa SANI.

Ma che cosa sto blaterando?, direte. Ecco, vi racconto per filo e per segno come si è svolta la mia pericolosa escursione su un vulcano di Bali, durante la quale a causa dell’imbecillità altrui (e un po’ anche mia) abbiamo rischiato grosso.

Questo è stato il momento di massima visibilità :(

Il grande desiderio: trekking sul vulcano

Quando ho iniziato a leggere siti e guide turistiche per programmare il mio viaggio a Bali, come sono solita fare, ho scoperto che gennaio è considerato un buon mese per tutto, tranne che per il trekking sui vulcani. Mannaggia, ho pensato, questa era una delle cose che mi interessava di più fare! Senonché gennaio era anche il periodo in cui volevo andare via, per spezzare l’inverno e per risparmiare sulle bollette di energia elettrica e riscaldamento.

Pazienza, vorrà dire che invece di arrivare in cima mi limiterò a guardare i vulcani dal basso, ho pensato. E con questo per me il capitolo vulcani era chiuso.

Sicuro o non sicuro?

Un nuovo capitolo vulcani si riapre alla Serenity EcoGuesthouse: mentre gioivo dello stato di grazia in cui mi trovavo una delle ragazze conosciute lì racconta entusiasta la sua emozionante escursione al Monte Batur per vedere l’alba dal cratere del vulcano. Mostra le foto, stupende, e a tutte noi della guesthouse scatta la voglia di fare la stessa esperienza.

Io, vecchia gallina, le chiedo: “Ma era sicuro?”.
“Sì, un po’ difficile la salita alla fine, ma se sei un minimo allenata non avrai problemi”.

L’idea mi stuzzica ma da Canggu non parte nessun tour di gruppo e prenotarne uno privato mi costerebbe un’eresia. Capitolo chiuso.

Prenoto subito!

La faccenda vulcano si riapre quando arrivo a Ubud. Ad ogni angolo c’è un operatore turistico che propone il famoso trekking sul Monte Batur: partenza di notte, colazione, trekking fino alla cima del vulcano per vedere l’alba, colazione con uova cotte sul monte, discesa e due soste turistiche, la prima a una piantagione di caffè e l’altra alle risaie. Costo a persona: 250,000 rupie, senza bisogno di trovare altre persone per dividere la spesa dell’auto e della guida.

A vedere questi tour in vendita dappertutto, tour che vengono effettuati giornalmente, penso che non può essere così rischioso: se lo fanno così tante persone tutti i giorni non sarà poi ‘sta impresa modello scalata dell’Everest. E poi una gentile agente di viaggio mi rassicura: “Se le condizioni atmosferiche non sono buone, annulliamo il tour e ti rimborsiamo i soldi”.

Ok, COMPRO! E questo è stato il primo errore: mai fidarsi di un asiatico che ti dice “It’s safe”. Dicono sempre che non ci sono rischi, anche quando rischi la vita.

Cronaca dell’escursione

Partiamo alle due del mattino, io sono emozionatissima. Mi godo la colazione e il caffè, che mi sveglia del tutto nonostante sia ancora notte fonda.

La mia gioia si annuvola, è il caso di dirlo, a pochi passi dall’inizio dell’escursione. Il tempo peggiora visibilmente, e uso questo avverbio in senso molto ironico: con quel poco che ci è dato vedere dalle torce, ci rendiamo conto che il cielo si è fatto completamente nuvoloso.

A peggiorare la mia situazione sono due compagne di gruppo, molto brave a salire e decisamente più veloci di me e dell’altra ragazza: peccato che Jack, la nostra guida, se ne freghi del fatto che noi due siamo più lente e continui a proseguire col passo delle atlete. Mi trovo a percorrere lunghi tratti da sola, ma ancora penso che la situazione è sicura e proseguo fiduciosa che sarò ricompensata da uno spettacolo meraviglioso.

I maroni iniziano a girarmi quando la mia torcia dà segni di stanchezza e Jack mi dà un’altra torcia che è ancora più debole. Chiedo se ha batterie di scorta, una piccola cosuccia che nessuna guida trekking seria si scorderebbe. Non le ha. Scocciata, gli ridò le sue torce e tiro fuori dallo zaino la mia: averla portata è stata l’unica azione previdente di questa mia sconsiderata escursione.

Ad un certo punto, come ci aveva annunciato Jack (e come mi aveva raccontato la ragazza di Serenity), la salita si fa impegnativa. In alcuni punti mi devo aggrappare con le mani per proseguire, ma ancora penso che si tratti di una normale fatica da escursione in montagna.

Arrivati ad una terrazza panoramica con panchine e una piccola tettoia la guida ci fa segno di sederci. Si è fatto freddo, il vento è più forte. Siamo un po’ confuse: è questo il punto di osservazione o è solo una sosta? Tra buio e nuvole noi non vediamo niente.

A fatica riusciamo a carpire una sorta di spiegazione da Jack, che parla un inglese abbastanza scarso. Secondo la sua versione mancano ancora 25 minuti di camminata per raggiungere la cima, ma si può vedere l’alba anche da qui.

“Dov’è la vista migliore?”, chiediamo, ancora speranzose che si diradino le nuvole e sia quindi possibile assistere a quello spettacolo per cui siamo venute fino a quota 1700m. E qui è il punto cruciale della storia, dove le cose potevano andare in un modo o nell’altro.

Fino a qui anch’io sono dell’idea di proseguire: non mi attrae particolarmente l’idea di camminare ancora in queste condizioni, ma che diamine sono venuta fin qui per vedere l’alba, voglio il migliore punto di osservazione. Ma mentre confabuliamo tra noi del gruppo (“secondo me si vede meglio da lassù ma lui non ha voglia di portarci”, concordiamo) le condizione meteorologiche peggiorano improvvisamente. Non ho manco il tempo di tirare fuori il k-way che sono già bagnata.

In quel momento a me appare evidente: è da folli proseguire su un sentiero ripido e scivoloso con pioggia e vento forte, soprattutto se si considera che non è un tratto di percorso necessario. Le nuvole sono fittissime ed è altamente improbabile che si diradino in tempo per vedere l’alba. Mi sento la codarda del gruppo, ma ritengo saggio non avventurarmi su un tratto di sentiero ripido e ancora più esposto al vento. Fanculo quel che possono pensare di me, io non vado.

Le altre tre ragazze del mio gruppo vogliono assolutamente arrivare in cima, così come la maggioranza di tutti gli altri gruppi. Non saprei dire una cifra, ma siamo decisamente tanti stamattina su questo monte. Io risoluta dico “no”; la guida prosegue con le altre tre, dopo avermi raccomandato più volte di non allontanarmi e di aspettarlo lì. Col cavolo che mi allontano, penso, io da qui non mi muovo finché non mi porti giù tu.

Forse ho visto troppi film di catastrofi in montagna, tipo Everest o The Summit, e mi hanno parecchio impressionata. Forse pecco di zelo eccessivo, mi dico, ma non mi pento di non aver proseguito.

Mi riparo sotto la tettoia, ci sono delle panche e quelle più in fondo sono ben riparate dal vento. Indosso le maglie di ricambio che avevo portato, sperando con questi quattro stati di tessuto di riuscire a scaldarmi. Unica volta nella mia vita, non ho portato felpe o giacche pesanti. Sono solitamente molto prudente nelle escursioni in montagna: perché stavolta ho preso tutto con leggerezza?

Il tempo passa e sono sempre più felice della mia decisione. Dubito che le mie compagne di avventura possano vedere molto più di me e sono certa che stiano rischiando molto più di me. La guida di un altro gruppo, un vero angelo custode, raggiunge la cima per acquistare bevande calde da portare a noi (ricordo che in cima avremmo dovuto fare colazione, ma le bevande erano a pagamento). Onestissima, la guida non si fa pagare niente per questo preziosissimo servizio. Il tè mi scalda e mi calma. Non m’importa aver perso la colazione, tanto non ho voglia di mangiare con questo freddo.

Ma più passa il tempo e più monta l’ansia: la pioggia ha smesso e vorrei riprendere il cammino il più in fretta possibile, prima che possa ricominciare a piovere o che il vento aumenti ancora. L’idea di farmi quell’impegnativa discesa con la pioggia scrosciante mi angoscia.

I primi gruppi iniziano a tornare dal cratere e si avviano immediatamente verso la discesa. Le persone rimaste sotto la tettoia man mano si ricongiungono ai loro gruppi e scendono. Il numero di persone sotto la tettoia si fa sempre più esiguo. Io inizio a temere di restare da sola: l’ultima cosa che voglio è restare bloccata a 1700 metri di altezza da sola con condizioni meteorologiche avverse. La guida mi aveva assicurato di tornare, ma se fosse successo qualcosa?

A ogni gruppo che ritorna dal cratere chiedo se ci sono ancora molte persone che devono tornare. Dicono sempre di sì. Inizio a chiedere se conoscono la mia guida, Jack, se l’hanno visto, se sanno se sta tornando. Imploro ai gruppi di non lasciarmi da sola ma tutti mi dicono di non preoccuparmi e se ne vanno.

Inizio a odiare le stronze che per il loro cazzo di desiderio egoistico mi hanno messa in questa situazione. Sarei forse già al parcheggio se non le avessi aspettate.

Quando le stronze arrivano ho la conferma che proseguire è stata un’inutile follia: esattamente come avevo sospettato, non hanno visto niente, sono morte dal freddo e hanno dovuto lottare contro un vento ancora più forte di quello che ha angosciato me.

Le due atlete chiedono a Jack se possono andare avanti da sole perché hanno fretta di scendere. “Ah, adesso avete fretta di scendere mignotte” è il mio poco gentile ma molto sincero pensiero. Jack è titubante, non vuole lasciarle scendere da sole, ma sa che io e soprattutto Gina, l’altra ragazza, non riusciremo mai a stare al loro passo.

Ci incamminiamo e le perdiamo di vista dopo pochi passi. Me ne strafrego: non ho intenzione di lanciarmi giù per il sentiero perché loro adesso hanno fretta. Mi hanno ben insegnato i film sulle catastrofi di montagna che la discesa è molto più pericolosa della salita e non ho nessuna intenzione di correre rischi per farle arrivare al parcheggio un quarto d’ora in anticipo. Scendo al mio ritmo, prestando molta attenzione a non scivolare. Ringrazio Dio, che non creda esista ma fa sempre comodo tirarlo fuori in queste situazioni, per aver fatto smettere di piovere.

L’amaro lieto fine

Passata la prima parte della discesa, quella più impegnativa, il vento si placa e io mi sento rassicurata: ora è solo questione di tempo, con calma raggiungo la meta in sicurezza. Ho ancora il timore della pioggia, ma avendo passato il tratto difficile penso che ormai si potrebbe scendere anche con quella.

Perse di vista le due atlete, Jack rimane finalmente al passo mio e di Gina, cosa che secondo me avrebbe dovuto fare sin dall’inizio: a quel che ne so io, in un gruppo trekking il passo viene dettato dalle persone più lente, non da quelli più veloci.

Gina fatica notevolmente. Già all’andata aveva mostrato evidenti segnali di fatica e mi aveva lasciata di stucco la sua decisione di proseguire fino alla cima: se sei già allo stremo delle forze perché continuare?

Il suo passo affaticato ci rallenta notevolmente, ma non voglio fare come le due atlete egoiste. Ormai il sentiero è largo abbastanza per due persone e io cammino a fianco di Jack, che si ferma frequentemente ad attendere Gina. Inizia di nuovo la pioggia, dannazione, e spero con tutto il cuore che Gina si dia una mossa, ma non prendo l’iniziativa di andarmene da sola. Lentamente raggiungiamo il parcheggio e ci ripariamo all’interno dell’auto, dove le atlete sono già in tenuta da sonno con tanto di mascherina sugli occhi.

Maledico tutte e tre per la sconsideratezza dimostrata nel voler proseguire a tutti i costi. La disavventura fortunatamente si è conclusa con un lieto fine, ma le cose avrebbero potuto facilmente andare diversamente.

A questo punto vogliamo solo andare a casa. Io sogno una doccia calda, cosa che non avveniva dal 12 febbraio, giorno della mia partenza per Bali: durante tutto il mio soggiorno avevo sognato soltanto docce gelide. L’autista ci chiede se vogliamo fermarci alle due soste previste, la piantagione di caffè e le risaie, ma siamo tutte d’accordo che ormai la giornata è sputtanata e vogliamo solo andare a casa.

In ostello mi godo una doccia calda, nonostante dei complicati rubinetti per cui devo manovrarli diverse volte in più direzioni prima di riuscire ad ottenere l’effetto desiderato (acqua che esce dal rubinetto; acqua abbastanza calda per scaldarmi ma non troppo da scottarmi). Mi caccio sotto le coperte e penso che cancellerò la prossima tappa del mio viaggio. Voglio rimanere a Ubud fino alla partenza e spendere i miei soldi in attività senza rischi come yoga e massaggi. Non riesco ad addormentarmi ma finalmente mi scaldo e l’incubo di questa lunga notte è finalmente concluso.

Morale della favola

La montagna è pericolosa, sempre, e non dobbiamo dimenticarcelo quando intraprendiamo un’escursione, ma la maggioranza delle situazioni pericolose e degli incidenti si creano per stupidità umana. C’è chi si sopravvaluta, chi parte impreparato, chi non considera adeguatamente i rischi, chi prende decisioni avventate… la montagna non perdona. E lo stesso potremmo dire del mare, o di altri ambienti naturali.

È vero che può capitare di avere fortuna e passarla liscia pur non avendo preso le necessarie precauzioni o che nonostante tutte le accortezze avvenga una sfiga, ma è più frequente il terzo caso, ovvero quello delle rogne che capitano a chi se le è andate a cercare.

Nessun tramonto o alba o altro spettacolo naturale è così bello da mettere a rischio la propria vita e quella degli altri.

Lo so che in viaggio non si vogliono perdere occasioni, soprattutto se ci si trova in un paese lontano che difficilmente si tornerà a visitare, ma ripeto: non mettete voi e gli altri in pericolo per portare a casa una bella foto.

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